lunedì 10 febbraio 2014

Dieci dita a Milano, l'orchestra

Oggi posto il testo del mio racconto sull'indimenticabile notte di note dello scorso 3 gennaio, insieme al link al sito dove è già pubblicato. Tutti i miei scritti su Claudio Baglioni, infatti, sono raccolti nelle varie sezioni di un angolo speciale senza il quale non esisterebbe questo mio piccolo blog, la pagina di unaparolaperte gestita dalla mia amica Silvia di Pisa che ho già menzionato in questi post. Lei ancora una volta mi ha dato l'energia per tornare a trasmettere e fermare emozioni nell'acqua della memoria, e la ringrazio per avermi sempre invitato a vestire momenti magici di parole. www.unaparolaperte.net/racconti/351.htm Dieci Dita Dieci dita a Milano, l’orchestra Teatro degli Arcimboldi, venerdì 3 gennaio 2014 Mentre sono seduta in compagnia del ricordo vivo e splendido della serata che ora proverò a ripercorrere, fissandone nella memoria emozioni, suoni e colori, mi invade la curiosa sensazione di essere tornata indietro di quasi dieci anni: infatti oggi come a marzo 2004, cui risale il mio primo incontro con unaparolaperte, mi preparo al racconto di un concerto di Claudio, e in entrambi i casi affido proprio a lui il compito di risvegliare in me la fiamma sopita in grado di infondere calore e vita alle mie parole, da troppo tempo stanche e pigre, incapaci di trovare spazio in una mente così scossa dai cambiamenti radicali degli ultimi mesi e continuamente inquieta anche quando imponevo pause alle mie attività. Come allora immagino l'occhio paziente di Silvia, la prima persona che conoscerà queste mie impressioni per poi custodirle e trasmetterle agli altri cuori in ascolto, ed ancora una volta mi è davvero preziosa perché mi sento incoraggiata dalla certezza che, con la sua natura semplice e profonda, saprà accoglierne e comprenderne ogni frase ed aspetto. Fin dal mio arrivo al teatro con quasi un'ora di anticipo ho respirato un'atmosfera di vivace ma composta attesa, riscaldata dalle tenui note delle canzoni di "Un piccolo Natale in più" diffuse in sala. Poco dopo le 21 il grandioso inizio strumentale del Cantique de Noèl a volume più alto e il primo fragoroso scroscio di applausi hanno annunciato l'ingresso dell'artista, e il suo benvenuto è stata "Solo" eseguita piano e voce, a mio avviso non senza ragione: certamente era l’unico sul palco e il concerto si profilava singolare in tutti i sensi, ma da subito è stato altrettanto chiaro che Claudio avrebbe ricoperto il suo ruolo da protagonista tutt’altro che solo. A noi che lo aspettavamo si è rivolto durante tutta la serata come alla sua orchestra, di cui ciascuno era strumento con la sua voce e i suoi battiti: nelle file più vicine al palco sedevano i primi violini, a suo dire quelli con maggiore responsabilità, uno dei quali è stato da lui abbracciato a pochi minuti dall’inizio, e a seguire tutto intorno violoncelli, fiati e percussioni; ci dirigevano una voce calda e dieci dita che si muovevano con maestria sul piano, la tastiera e le chitarre, e che per oltre tre ore hanno mantenuto costante l’energia e l’intesa fra noi e con lui. Senza fatica noi archi, flauti e clarinetti capivamo quando fermarci in silenzioso e rapito ascolto e quando far udire la nostra voce ed i nostri applausi, ed io strumento fra i tanti mi lasciavo condurre con naturalezza lungo il viaggio che Claudio aveva pensato per noi e con noi, attraverso canzoni scritte a distanza di anni o decenni l’una dall’altra ma legate da rapporti di filiazione, ed episodi più o meno noti della sua umanissima esistenza, apparentemente di poco o nessun interesse ma che destavano la nostra attenzione grazie all'abilità del narratore e alla sua consueta ironia. Ha cantato quasi integralmente l’immancabile casetta in Canadà ricordando quel suo primo improvvisato palcoscenico, e rievocato le sue peripezie di tredicenne a caccia di opportunità come cantante nella difficile Milano di allora, giocando con il suo passato con tenerezza divertita (“I bambini prodigio andrebbero ammazzati da piccoli!”) e con la consapevolezza di chi non è più quel ragazzo che ha sempre visto la vita come un bel ricamo, ma di qua da uomo sa la trama ordita. Sceglie di dedicare il concerto alla madre dopo aver dipinto davanti a noi con le parole la scena del giorno in cui, all’insaputa di tutti, lei si presentò al commissariato e dichiarò di aver guidato una Porsche a folle velocità in autostrada, infrazione per la quale avrebbe dovuto pagare Claudio. La canzone successiva è stata “acqua dalla luna” alla chitarra, e certo far crescere acqua dalla Luna sarebbe un miracolo come poter essere sostituiti dalla propria madre nelle circostanze incerte e scomode della vita; inoltre la madre è anche citata nel testo, per quanto l’autore desiderasse compiere magie strabilianti per guarire qualunque malattia compresa l’indifferenza, quando lei stava male poteva soltanto rimanere zitto accanto al suo cuscino. “Ragazze dell’est” e “Gli anni della gioventù” erano come una cornice attorno al divertente racconto dei mesi trascorsi in Polonia a diciannove anni, e davanti a noi si mostrava chiara l’immagine di Claudio spensierato, inesperto e pieno di ardore e di sogni; ha conservato quegli anni forti come onde in una memoria bianca e soffice come la neve, e da essa può richiamarli in ogni momento per offrirceli nitidi e cristallini. L’aspirazione a ricevere e regalare a chi ci è caro note dal Paradiso era l’introduzione a “Dieci dita”, e più che mai ho percepito quella felice melodia come frutto di uno stato di grazia; ne ero convinta fin da quando, a pochi giorni dalla sua uscita, non potevo saziarmi di ascoltarla e riascoltarla con lo stesso stupito entusiasmo. Il piano e la tastiera hanno reso celestiali anche le melodie di “E noi due là” e “Isole del Sud”, quest’ultima interpretata subito dopo “Poster” e definita una sua lontana figlia: se è vero che andare lontano è un sogno comune a tutti o a molti, per chi è in procinto di partire alla ricerca di qualcosa di nuovo la prospettiva ad un tempo fa vivere e morire, si alimentano speranze ed intanto qualcosa dentro si infrange. Altre due canzoni considerate madre e figlia erano “Con tutto l’amore che posso” e “In un’altra vita”, il principio di un amore che toglie il fiato e una lunga storia pienamente vissuta con un epilogo senza una vera spiegazione ma inevitabile. "I vecchi", scritta quando Claudio aveva circa 30 anni, ora viene interpretata dopo qualche motto scherzoso sulla non più verde età del suo autore, rimanendo intensa e attualissima. Favole e cose tenere racchiuse tra note e accordi si susseguivano così collegate da un intreccio di fili, e a tratti mi tornava in mente il Concert Opera cui ho assistito in quello stesso teatro quattro anni fa; ero quasi altrettanto assorta ma conoscevo i passaggi e lo sviluppo della storia, mentre ora l’incantautore riusciva spesso a sorprendermi e strapparmi risate e grida di approvazione. Nulla mi appariva come già sentito o prevedibile, ed i miei precedenti incontri dal vivo con quella voce non erano che sale, che si scioglieva per dare gusto non al futuro ma a quel meraviglioso presente di cui godevo ogni istante con la stessa sete. Mi ha allargato il cuore il riferimento seppure fugace e indiretto al raduno di Firenze, Claudio ha ricordato che in un’occasione aveva cantato per ben sette ore e mezza davanti ai propri fans, e forse anche allora aveva tralasciato la canzone preferita di qualcuno! E come quel giorno è salito sul palco fra le ovazioni un ospite graditissimo insieme alla sua chitarra, Giovanni Baglioni. Subito prima Claudio si era prodotto con il nostro sostegno in una carrellata a cappella delle sue canzoni diventate inni anche se non ufficialmente tali né scritte su commissione, scherzandoci in suo perfetto stile ("Inno alla presenza, Io sono qui, inno all'identità, sono io, inno all'esistenza, vivi", inno alla fuga, Dagli il via”). Padre e figlio hanno eseguito insieme “E adesso la pubblicità” e in modo fluido, senza uno stacco, è iniziata una specie di seconda parte in cui l'artista aveva bisogno della nostra partecipazione e noi avevamo voci e mani pronte a lasciarsi coinvolgere, L’orchestra quindi stava per accompagnarlo tra alcuni dei suoi maggiori successi. Giovanni ci ha regalato un pezzo di sua composizione alla chitarra rivelandosi un virtuoso “Prodotto della casa”, come Claudio lo ha definito senza nascondere una certa commozione. Alla sua uscita la canzone a lui dedicata “Avrai” al piano ha aperto la serie di brani celebri, da me quasi tutti ascoltati per la prima volta dal vivo in quella versione acustica con un solo strumento e cantati con tutta l’anima. A volte Claudio passava il microfono ai primi violini che all’improvviso da audaci divenivano timidi e spostavano per caso lo sguardo altrove, ma qualche voce aggraziata ha intonato insieme a lui e alla sua chitarra brevi strofe di pezzi senza tempo come "Viva l'Inghilterra" e "Porta Portese". “La vita è adesso” al piano è stata un regalo per il quale non ho ancora smesso di saltare di gratitudine, fatto di parole che quasi ogni giorno ho bisogno di ripetermi e di una melodia capace di incantarmi in qualunque arrangiamento. Poi per un attimo è sembrato che il sipario stesse calando su quel salto, ma quello non era ancora il finale: subito è tornata la voce del direttore a chiudere il cerchio incominciato da “Solo” con due canzoni che mi parevano rappresentare il suo abbraccio e ringraziamento all’intera orchestra, “Strada facendo” e “Con voi”. Forse per me è stato l’unico particolare non proprio inaspettato ma mi ha colmato di gioia, era la conclusione più adatta per questa notte di note e il miglior modo per non interrompere la corrente sottile alla quale volentieri ci eravamo abbandonati, perché questo sogno fu e continua ad essere con noi. Uscivo dal teatro arricchita del calore che dalla prima nota si era irradiato dal palco fino ad ogni angolo e lo raccoglievo come un tesoro, in attesa di moltiplicarlo quando le mie parole avrebbero ritratto almeno l’essenziale di questa mia nuova pagina a tempo di musica e mi avrebbero aiutato a condividerla con chi vorrà provare a leggerla con i miei occhi.

domenica 7 aprile 2013

Recensione del brano "Dal giardino tropicale" di Pacifico

La canzone "dal giardino tropicale" è una vera cartolina in musica di straordinaria bellezza, scritta da una spiaggia “appena uscita dal mare” ma non ad agosto, bensì in una notte d’inverno che volge ormai all’alba. L’autore è circondato da un paesaggio in apparenza immobile e quasi deserto, ma la sua descrizione e l’atmosfera che la melodia crea fin dai primi accordi non trasmettono affatto un senso di desolazione: la vita pervade invece ogni elemento, certo non frenetica come in estate ma quieta e inesorabile. Forse il nostro scrivente si trova qui proprio per fare il pieno di questa pace profonda ed inconsueta nei suoi giorni: il “Finalmente” dell’inciso mi sembra esprimere tutto il sollievo e la gioia di sentirsi a un passo dal mare e dal cielo stellato, con la libertà e l’agio di contemplare l’immensità ed insieme osservare ogni più piccolo dettaglio, ascoltare ogni più impercettibile rumore ed accoglierlo in sé. Nelle strofe Pacifico dimostra notevole abilità nello scolpire figure attraverso le parole servendosi di allitterazioni, metafore, similitudini e frasi nominali, permettendo a chi ascolta/legge di visualizzarle nella propria mente. Inoltre, una volta passate attraverso i suoi occhi, queste immagini sono rielaborate ed interpretate dalla sua vivace fantasia e ciò rende la cartolina così speciale. Le barche sparse sulla sabbia sono quasi personificate, non stanno per essere calate in mare perché non è la stagione adatta ma sono invece "svogliate e capovolte al sole", e portano scritto un nome che deve essere “Caro al pescatore” cui appartengono; il loro legno è "a scarti a schegge a miniature", le consonanti ripetute ad inizio parola riproducono il rumore secco delle schegge che si staccano disegnando sulla superficie motivi irregolari che al suo sguardo paiono miniature, e i loro pali immersi in piccola parte nel mare hanno “l’acqua alla vita”. È interessante la descrizione della ruggine delle ancore e dei pontili, sulla quale l’autore focalizza più volte la sua attenzione connotandola con diverse metafore: all’inizio è rappresentata come una bruciatura ("ustiona") che si accompagna al ferro e insieme ne sottrae un po’; nel secondo caso "gratta", Pacifico sceglie un altro verbo per indicare che rende ruvido il ferro, ed oltre a sottrarne una parte lo "spoglia", immagine ancora più precisa perché chiarisce anche che ciò avviene per strati, come se la sua superficie più esterna fosse un vestito. Nella seconda strofa si ode il fruscio di qualche movimento, la vegetazione che sventaglia al passaggio dell’unica persona presente, i passi di un cane magro e ormai abituato a vivere in assenza di esseri umani; il cigolio di una giostra inutilizzata da tempo, composta di draghi e mostri marini coperti da un telo di plastica forse agitato dal vento, all’orecchio di Pacifico somiglia ai bisbigli sommessi dei bambini sotto le lenzuola. L’inciso è come il messaggio sul retro della cartolina, l’autore rivolge un pensiero di estrema delicatezza ad una persona a lui cara suscitatogli da quel luogo tranquillo e sconfinato: ritorna spesso nella canzone con alcune variazioni sensibili ("dovunque mi giri / mi volti stelle, forse una di quelle si fa cercare / ti sta a guardare, si fa indicare da te / perpendicolare a te").

venerdì 29 marzo 2013

Pensieri e immagini da un sogno, Pacifico

Le cose non sono mai come le immaginiamo o le attendiamo, specialmente
se ci avevamo investito molto in aspettative e, con la lente
deformante della nostra impazienza, avevamo osato visualizzarci vere e
proprie scene di quello stralcio di futuro tanto desiderato. Sono
abbastanza grande da saperlo e abbastanza ingenua da dimenticarlo con
facilità, e durante l’esperienza che mi accingo a raccontare, il mio
primo concerto di Pacifico in compagnia di altri suoi fans, e nelle
ore immediatamente successive ne ho avuto una conferma evidentissima.
Ho imparato, o richiamato alla memoria, cosa sia quella gioia completa
e profonda che mi regalano le notti di note come quella del 14 marzo
al Bluenote di Milano, una gioia tanto preziosa quanto così fragile
che il più piccolo frammento di prosaica realtà, come un ago
sottilissimo ma implacabile, può infrangerla e farla esplodere come un
invisibile palloncino. A distanza di giorni mi piacerebbe essere
ancora circondata da quella bolla di sogno, vorrei che non mi avesse
abbandonato quel sorriso da paresi facciale che non ho perso un attimo
durante il concerto, continuare a riempirmi dello stesso stupore e
della stessa gratitudine che ho provato per ogni nuova conoscenza,
ogni arpeggio della chitarra, ogni nota anche non perfetta, ogni
intervento parlato e incontro personale con Gino. Ma la realtà è così
tiranna che la sensazione che prestissimo ha cominciato a inondarmi è
strana, come se l'essermi lasciata così coinvolgere e trasportare da
quest'uomo in un'altra dimensione, anche per poche ore, fosse una
colpa per la quale devo chiedere scusa al mondo, una roba da sciocchi
o da immaturi. Avevo la netta impressione che, se avessi aspettato
anche pochi giorni a fotografare quanto mi è rimasto di quelle quattro
ore, la realtà tiranna mi avrebbe privato dei frammenti di quella
bolla che io invece, seppure di nascosto, voglio conservare e che
difficilmente un filmato potrà restituirmi.
Non era un pensiero tanto assurdo, perché certamente il tempo non mi è
stato amico e quasi mai sono stata di quell’umore sereno, che aiuta a
creare dentro di me uno spazio libero da cui escludere le
preoccupazioni quotidiane e nel quale lasciar entrare e scorrere
liberi solo i ricordi più luminosi per immortalarli nelle parole. Se
anche questa volta sono riuscita a scattare questa singolare
fotografia è stato soprattutto grazie a due persone per me speciali,
entrambe conosciute per la prima volta nelle parole di racconti a tema
musicale: la prima in ordine di tempo è Silvia di Pisa, splendida
fondatrice del sito dedicato a Claudio Baglioni
www.unaparolaperte.net, che ho incontrato anni fa navigando sulle sue
pagine ed in poco tempo è divenuta una carissima amica. È grazie a lei
che avevo già vissuto concerti in compagnia di persone con cui
condivido la passione per un artista, e la sua capacità di custodire
nel cuore queste esperienze e tradurle in parole semplici e poetiche
mi ha suggerito l’idea di raccogliere anch’io il suo invito, discreto
e costante, a non smettere di trasmettere. La seconda è Maria, un
regalo che ho ricevuto l’anno scorso dopo aver inserito il mio primo
racconto su Pacifico nel gruppo di facebook frequentato dai suoi fans;
in questi mesi ho scoperto con gioia la sua umanità e i tratti che ci
accomunano e mi onora di una stima immeritata, specialmente della mia
abilità di scrittura. Ho letto il suo messaggio che mi spingeva al
racconto, ma già prima sapevo che attendeva le mie parole e desideravo
portarla con me nella serata di giovedì scorso, e questo pensiero mi
ha aiutato a compiere nuovamente il lunghissimo viaggio per rientrare
nella dimensione fantastica del concerto, ora senza vergogna alcuna e
con piacere.
Avevo deciso di parteciparvi soltanto due settimane prima ed ero
entusiasta di ritrovare Pacifico a nemmeno un anno dall’ultimo live al
teatro Franco Parenti, in una location per me nuova e ricca di fascino
così come la compagnia di Roberta e Alessandra, amiche del gruppo che
non finirò di ringraziare per la disponibilità e cordialità che mi
hanno dimostrato. La sera del 14 marzo io e Alessandra ci siamo
incontrate sotto casa sua alle 19 circa e in macchina ci siamo avviate
al bluenote, dopo essere andate a prendere Roberta alla vicina fermata
del tram; al locale ci ha raggiunto Gabriele, anche lui parte del
gruppo, e siamo entrati poco prima delle 20. All’arrivo ho trovato ad
aspettarmi la prima sorpresa, Gino era li' e con gli altri sono andata
a salutarlo; ero elettrizzata dalla gioia, ma sono rimasta davvero
esterrefatta quando, appena mi ha notato, mi ha anche chiamato per
nome! In realtà si ricordava benissimo di tutti noi e io sono stata
l’unica a meravigliarmi, ma i miei compagni di viaggio erano fans di
lunga data mentre io, benché lo segua da sette anni, gli avevo parlato
soltanto una volta lo scorso anno alla Fnac... ciao Alissa? Che
significa questo capovolgimento di ruoli? Di norma sono io, Gino, che
ti riconosco e corro a salutarti, non tu che riconosci me! Chissà, è
vero che Pacifico ha una memoria incredibile e che scrivo spesso sulle
sue pagine di facebook e twitter, e forse ho un nome abbastanza
particolare da rimanere impresso, come il mio volto, anche a uno dei
miei cantanti preferiti! Tutti e quattro ci siamo fermati qualche
istante a chiacchierare e scherzare con lui; gli altri erano spigliati
e si divertivano a scambiarsi battute di spirito, Alessandra gli ha
raccontato di aver appena preso una multa per colpa sua e Roberta ha
minacciato di scappare all'alcatraz a sentire i munford and sons se
non fosse stata soddisfatta! Io invece non perdo l'emozione che mi
accompagna sempre quando mi capita di parlare di persona con qualcuno
che sa darmi così tanto, dunque mi sono mostrata poco loquace,
nonostante il luogo e il fatto che Gino ormai mi conosca mi abbiano da
subito trasmesso un senso di intimità, come in una famiglia. Poiché
era presto e il Bluenote non era ancora affollato, il tavolo proprio
accanto al palco è stato nostro, tanto che allungando il braccio
sinistro potevo quasi toccare la pedana!L'attesa è trascorsa tra un
leggero spuntino, qualche foto e molte chiacchiere tra di noi e con
altri membri del gruppo che man mano si accomodavano in sala, fino al
momento in cui Gino ha dato inizio alla musica alle 21,15 insieme a
due soli validi musicisti, Silvio Masanotti alla chitarra e Ivan
Ciccarelli alle percussioni.
Anche in virtù del gruppo ristretto da cui era accompagnato mi ha
trasportato in modo nuovo nelle sue canzoni: gli arrangiamenti com’è
naturale erano rivisitati, essenzialissimi, sembrava che contenessero
degli spazi che stava a noi colmare con i nostri battiti, le immagini
e i suoni che associamo ai singoli brani. L’ho percepito fin dalla
prima canzone, “Pacifico”, non dirompente di per sé ma se riuscivo a
riprodurre nella mia mente, come nei live precedenti, il senso e il
suono delle onde alte cento metri e dei venti che scuotono i vetri e
il mio corpo. “In cosa credi” era il titolo dello spettacolo, la
domanda che il cantautore ha rivolto a se stesso prima di presentarci
in forma di musica e brevi racconti le parziali risposte che si è dato
di giorno in giorno. La scaletta era composta da pezzi noti adatti
allo scopo e al luogo, inediti intensi e tutti da scoprire e qualche
cover amata da Pacifico come “Pasqualino marajah”. I racconti che
leggeva quasi tra una canzone e l’altra erano simili a monologhi
teatrali in prima persona, vere e proprie finestre sul suo mondo per
come ce lo vuole mostrare, e mi ha colpito questo desiderio per nulla
scontato di condividere la sua storia; mi sono rivista in quel ragazzo
che passa ore e ore a fantasticare guardando fuori dalla sua casa di
Milano, ho pensato alla mia radio che come la sua ha assistito
discreta a tante tappe decisive della mia vita, alla gioia che fin da
piccola ricevo dal rumore del mare udito in estate. Questi racconti,
dei quali Pacifico aveva condiviso almeno il nucleo sulla sua pagina
facebook nei giorni precedenti il live, erano parte integrante dello
spettacolo, sullo stesso piano delle canzoni, anch’essi frutto di
instancabile studio e labor limae. È vero che, come ritiene la maggior
parte delle persone che avevo intorno, poteva risultare un po'
difficile seguirne il filo e l’artista appariva meno spontaneo
rispetto agli scoppiettanti interventi parlati a cui ci ha abituato,
nei quali un ruolo chiave spettava all’improvvisazione. Io però non mi
sono annoiata nemmeno un minuto, non sarei una letterata se non
nutrissi un’autentica passione per una parola così ricercata e
poetica! Non sono mancati i passaggi divertenti e scherzosi, per fare
un solo esempio Gino ha dichiarato più volte di voler finire così
tardi che… non solo sarebbero state chiuse le metro, ma ci sarebbero
state le prime vecchiette a prendere il numero agli esami del sangue!
È però chiaro che, pensando ai concerti degli inizi di cui ho solo
esperienza indiretta ma anche al primo cui ho assistito quattro anni
fa, mi accorgo che lo stile è cambiato, nel senso che, quando il
poliedrico personaggio guadagna il palco portando tutto se stesso, ora
è più a fuoco il suo lato riflessivo volutamente inserito in una
cornice strutturata, che a mio avviso non è meno interessante di
quello più vivace e frizzante emerso in altre occasioni. Sono rimasta
in rapito ascolto quasi per l’intero concerto, mi è venuto da cantare
soltanto “A nessuno” per il suo ritmo incalzante e perché mi era
naturale intonare il controcanto eseguito nel disco da N A N O, e “Le
mie parole”, perché dal vivo di fronte a Gino la sento più vera che
mai. Ho avuto l’impressione, spero non troppo ingenua e ottimista, che
il resto del pubblico fosse del pari attento e non addormentato;
spesso gli applausi partivano dopo che l’ultima corda della chitarra
aveva smesso di vibrare e i silenzi sono stati più assoluti e numerosi
che in qualsiasi altro live che io ricordi, e per me erano un aiuto ad
ascoltare le mie emozioni amplificate e pure. La voce di Gino era
tutt’altro che impeccabile nell’intonazione e si avvertiva che
arrivare in alto gli costava fatica, ma questo non mi ha impedito di
gustarmi pienamente le sue melodie e i suoi testi. Ad un certo punto,
al termine di una riflessione sulle canzoni d’amore in genere e in
particolare sui sentimenti propri di molte storie a distanza, è
comparsa Cristina Marocco introdotta da Pacifico con una pletora di
aggettivi complimentosi (meravigliosa, splendente ecc. ecc.) dopo aver
scherzato con la sua consueta autoironia sulle due o tre carie che ci
saremmo ritrovati a causa sua! Hanno unito le loro voci in L'ora
misteriosa e Parlami radio, e Cristina era come la ricordavo,
aggraziata, emozionata e felice di condividere quel pubblico con Gino
nonostante non fosse, almeno all’apparenza, il più caloroso che si
possa immaginare!
La canzone conclusiva è stata Infinita è la notte come alla Fnac, un
brano che allarga l'orizzonte con lo sguardo della mente che cerca di
abbracciare il tutto e lo restringe alle parole antiche senza età
pronunciate in una stanza, e questo contrasto armonico mi ha
affascinato anche più che negli altri live. Dopo le ultime note di un
simile spettacolo, per molti di noi metterci rispettosamente in fila
vicino all’angolo dove Gino si era fermato a salutare e firmare
autografi è stato quasi normale, come fosse ormai un amico, tanto che
ho pensato che accidenti non mi sarei agitata, per scoprire al mio
turno che di nuovo mi sbagliavo. Gli ho afferrato la mano e alla sua
domanda se mi fosse piaciuto il concerto ho risposto che per me era
troppo, troppa grazia, senza esagerazione alcuna perché era
precisamente quello che sentivo, e lui ha ribattuto “la prossima volta
lo faremo meno bello!”, prendendomi benevolmente in giro; oltre a
ringraziarlo più di una volta sono riuscita soltanto a confidargli
quella sensazione di calore familiare che fin dai primi istanti avevo
respirato. Mentre parafrasando Claudio Baglioni mi contavo le parole
in tasca, lui autografava per me una cartolina e ci scriveva “grazie
per la tua attenzione”, una frase che ho percepito come sincera e in
armonia con il contesto e il modo in cui avevo vissuto la serata.
Anche i miei compagni di viaggio hanno avuto la loro dedica e
volentieri siamo andati anche a fare i complimenti a Cristina, che
sembrava davvero contenta pur non perdendo mai il suo atteggiamento
misurato. Prima di lasciare il Bluenote Alessandra ha scattato una
foto a me e a Gino abbracciati sottraendo all’oblio anche la mia
espressione incantata e riconoscente, e con questa dolcissima immagine
chiudo il cerchio ideale che, come un confine sottile ma nitido,
separa nella mia memoria quattro ore di sogno dal tempo ordinario
della realtà.

sabato 19 gennaio 2013

Alcune considerazioni sull'album "Eva contro Eva" di Carmen Consoli

L'album uscito nel 2006 segna il compimento della svolta già in parte avviata con "l'eccezione", che non a tutti è piaciuta per una presunta perdita della vena rock, la mancanza delle chitarre distorte degli album precedenti. Ciò è stato sottolineato da più parti nel bene e nel male, il mio obiettivo ora è di sottolineare il fascino che esercita su di me questo ritorno alle origini, alle radici della musica perché no anche regionale, ed anche i punti di continuità con la Carmen Consoli precedente dalla quale così spesso sono state evidenziate solo le differenze. Questa cantante ha certamente uno stile riconoscibile ma non si può considerare monolitica, legata ad un unico genere o ad un unico tipo di sonorità; credo che si noti facilmente non solo ascoltando "l'eccezione" ma anche ponendo attenzione ai due album "confusa e felice" e "mediamente isterica" che rappresentano tuttora il motivo principale del suo successo. Mi è capitato di sentirle affermare che quando scrive le sue canzoni sono i testi che modellano gran parte della musica, e ritengo che una delle sue peculiarità sia proprio quella di non creare contrasto tra le parole e la melodia e gli arrangiamenti che le accompagnano; come paradigma di questa sua caratteristica potrei proporre un confronto tra una delle pagine più pure e delicate del suo repertorio, "14 luglio", e uno sfogo diretto e senza ritorno come "per niente stanca". Con "Eva contro Eva" la Consoli in parecchie canzoni mi sembra scendere nei dettagli di una realtà che prima non aveva mai esplorato, quella della sua Sicilia osservata dal punto di vista delle persone umili dei paesini delle quali descrive alcuni episodi della vita e soprattutto i pensieri; era inevitabile che questo portasse la cantautrice a ricercare una musicalità nuova ed essenziale, e per ottenere questo risultato si è avvalsa della collaborazione del gruppo tradizionale siciliano dei Laudari. Le chitarre e i flauti dunque giocano un ruolo centrale e creano l'atmosfera antica che permea tutte le canzoni e valorizza i testi quasi tutti piuttosto drammatici, ma anche su questo è bene sfumare il giudizio: a caldo, appena ascoltato l'album, ho avuto l'impressione di un quadro oscuro con un'unica finestra di speranza, la canzone conclusiva "il sorriso di Atlantide"; in realtà alcuni di questi pezzi sono carichi di disillusione e denuncia, ma guardando meglio per esempio a "madre terra" si coglie più ancora del compianto per la sorte dell'Africa "violata abusata e offesa" la gioia e l'intensità di quel continente legato alle proprie tradizioni ma pronto ad accogliere maternamente, espressa in primo luogo dalla voce armoniosa di Angelique Chigio; le parole in cui le voci delle due cantanti si accordano, posizionate in fine di verso nell'inciso, tra cui anche lo stesso titolo "madre terra", sono le più significative, l'invocazione unisce Oriente ed Occidente nello stesso bisogno del caldo abbraccio di una madre comune. È questa un'affermazione positiva o almeno una speranza legittima, l'aspirazione che si riconosca l'universalità dei bisogni primari e quindi dei diritti elementari; questo senza annunci e senza scandali, con quelle risorse consentite dal linguaggio musicale così ricco e capace di trasmettere messaggi per più canali in contemporanea, in questo in parte simile al teatro, almeno nel caso di una cantante che estende più che può le sue ricerche e adatta i mezzi a sua disposizione sia al suo stile sia alle esigenze espressive del momento. Quando il CD era uscito da pochi giorni, prima ancora di acquistarlo, ho avuto il piacere di ascoltarlo dal vivo durante il tour associato con l'accompagnamento dei Laudari; mi ha colpito il pathos che si è creato nonostante fossi al forum di Assago, in quelle canzoni dove il ruolo principale spettava alle parole, come "la dolce attesa": esse arrivavano in tutti gli angoli della sala con la stessa forza proprio come a teatro, e questo era senz'altro favorito dall'essenzialità degli arrangiamenti pur curatissimi; la storia mi si è dipinta davanti alle sole parole "gravidanza isterica", e si faceva via via più chiara per il numero di dettagli sugli stati d'animo e le azioni della protagonista che non a caso rimane anonima, in contrasto con l'atteggiamento di indifferenza delle persone che ha intorno che, dopo averla indotta in errore, tollerano di esporla ad una grave sofferenza "per viltà", questo il commento di Carmen che si inserisce nella storia in modo esplicito ed implicito e, com'è sua abitudine, non la racconta soltanto nella sua crudezza. Interviene da vera maestra aprendo l'inciso con un "mentre aspettava il lieto evento che mai avrebbe avuto luogo", chiarendo ancora meglio la situazione di quella donna, poi descrivendo con minuta precisione i suoi preparativi per il parto, i suoi stati d'animo e la percezione di quella creatura nel suo corpo che in realtà è solo una sua idea ("sentiva quell'essere muoversi con grazia superba come un trapezista in scena"; le anafore unite alle climax ascendenti esprimono bene l'attesa che si prolunga tra l'inerzia di tutti e la felicità crescente della protagonista che è destinata a tramutarsi in un abisso di disperazione. Da questo e dal fatto che il titolo di una simile canzone è "la dolce attesa" si evince la simpatia di Carmen per la protagonista e il suo disprezzo per l'ipocrisia di "tutti": li chiama sempre così per dare ancora più risalto alla solitudine della donna nel suo dramma, e a volte condanna apertamente la loro viltà, a volte li colpisce con il suo tipico sarcasmo fingendo di spiegare il loro punto di vista come se fosse ragionevole ("sarebbe stata questione di giorni, ed avrebbe chiarito da sé l'increscioso equivoco di cui era la sola ed unica artefice"). La canzone si chiude con gli ultimi istanti di quell'attesa così pienamente vissuta dalla donna ("mistica e lenta la dolce attesa"), non c'è bisogno di raccontare un finale ovvio e terribile, che si conosceva fin dalle prime battute. Altra aspra condanna dell'ipocrisia e della credulità popolare è la canzone "Maria Catena", la storia di un'altra donna questa volta con un nome parlante che ci mostra subito lo stato di prigionia ingiusta, umiliante e difficile da scrollarsi in cui la protagonista si trova: è vittima dei pettegolezzi della gente che, fidandosi di chiacchiere infondate e menzognere, la accusa di colpe che non ha commesso e la esclude dalla comunità in maniera sia sostanziale sia formale: emblematico in questo senso "il rifiuto del parroco di darle l'ostia" da cui prende spunto l'intera riflessione di Carmen. Anche qui la cantautrice sta decisamente dalla parte della protagonista alla quale nell'inciso si rivolge direttamente con accenti pietosi e comprensivi ("anche tu conosci quel nodo che stringe la gola") e di amara ironia ("e ti chiedi se più che un dispetto il tuo nome sia stato un presagio"); nelle strofe invece si concentra sul racconto in terza persona della situazione nella quale l'hanno messa i compaesani, dal primo all'ultimo, che sono assolti o assolvono "da più di vent'anni dai soliti peccati", vanno in chiesa con regolarità ma sono lontani mille miglia dalla vera religiosità ("Cristo in croce sembrava alquanto avvilito dai vizietti di provincia"). Il ritornello si ripete sempre identico e questo, unito alle parole stesse di Carmen, fa pensare ad un ripetersi del medesimo inferno da tempo immemorabile, ed ogni volta il dolore si rinnova tal quale perché il pettegolezzo alla lunga si alimenta ed acquista sempre più credito ("stai ancora scontando l'ingiusta condanna nel triste girone della maldicenza"); il girone mi evoca l'immagine di una pena che non conosce tregua e va oltre il tempo, ininterrotta come il trasmettersi delle chiacchiere di padre in figlio, inseparabile dalla misera condannata come il suo infausto nome. L'episodio che qui si racconta è ambientato in chiesa durante la messa, e Carmen nella prima strofa dà un'immagine immediata della comunità "il vecchio prelato assolveva quel gregge da più di vent'anni dai soliti peccati"; gregge però non in senso cristiano e quindi positivo, di docili creature che si affidano al loro pastore, ma, come si evince dal rimando ai "soliti peccati" e dalle immagini così violente appena successive ("il pettegolezzo imburrato infornato e mangiato, quale prelibatezza e meschina delizia per palati volgari, larghe bocche d'amianto fetide come acque stagnanti), il termine gregge serve ad indicare pecore senza discernimento che seguono altre pecore senza chiedersi dove stiano andando ed accettando come oro colato qualunque bugia; Cristo in croce più volte chiamato in causa, l'unico che conosce la verità e non a caso lontano da tutti in quella chiesa, "mostrava un sorriso indulgente e quasi incredulo".

sabato 5 gennaio 2013

Il mio ricordo di Valentina Giovagnini

Il mio ricordo di Valentina Giovagnini
Oggi vorrei soffermarmi brevemente a ricordare una cantante italiana che ha dato molto alla musica ma è rimasta una promessa, perché ci ha lasciati per le ferite riportate in un incidente stradale il 2 gennaio 2009 a soli 28 anni. Era una serata tranquilla e mi trovavo qui in Valle d'Aosta quando diedero la notizia ad un telegiornale, pochi secondi e nessun servizio che raccontasse un frammento della storia di questa Valentina Giovagnini a chi non la conosceva. A me però quel nome ha richiamato subito una voce chiara e un paio di canzoni molto originali e gradevoli che risalivano a sette anni prima: infatti già nel 2002 avevo il vizio, che non ho alcuna intenzione di perdere, di seguire passo per passo il festival di Sanremo e dedicare un interesse speciale alle nuove proposte. Quell'anno una ragazza timida e riservata dalla voce cristallina si presentò con "il passo silenzioso della neve" e si classificò seconda con merito; non mi colse un'emozione dirompente ascoltando quel brano, forse ero ancora troppo giovane per apprezzare quelle sonorità inconsuete, e nemmeno in seguito, benché abbia riscoperto la grazia di quelle note, Valentina è diventata una delle mie cantanti preferite; ma non l'avevo dimenticata, la voce della giornalista riferiva di un incidente capitato a una persona che per me era un timbro chiaro e definito. Nei momenti successivi, cercando approfondimenti sulla notizia e su Valentina, ho avvertito più acuta la sensazione che mi aveva sorpreso durante il telegiornale: mi sono sentita straordinariamente coinvolta, interrogata da questo spiacevole evento, molto diversamente dalle molte altre volte in cui ho udito notizie simili. Ora si trattava di una ragazza poco più grande dei vent'anni che avevo allora; era laureata in lettere e io frequentavo il primo anno della stessa facoltà; era appassionata di musica tout-court e in particolare di quella tradizionale della sua Toscana e, dopo la partecipazione a Sanremo, si era concentrata sull'insegnamento del canto. Quel silenzio con cui normalmente reagisco di fronte alla perdita di qualcuno era interrotto da un pensiero insistente: quella ragazza avrei potuto essere io. Non reggevano le facili e riduttive considerazioni che purtroppo vengono spontanee, quello/a correva da matti, era in discoteca a sballarsi e chissà cosa aveva bevuto ecc. ecc.; Valentina non solo era una voce nota, ma mi somigliava più di quanto avrei pensato. Quella sensazione andava ben al di là di una consapevolezza, non era frutto di un ragionamento ma sembrava un grido del cuore, carico di di domande cui era ed è difficile rispondere, genuino e sincero. Questo grido non è caduto nel vuoto perché ho la fortuna e la grazia di trovare un senso nella preghiera, e in questi quattro anni ho letto spesso sul web le parole di persone per cui Valentina è stata ed è una presenza reale. Ho appreso dell'associazione a lei intitolata, attiva in opere di solidarietà in paesi come il Nicaragua, e del premio Valentina Giovagnini dedicato a nuovi talenti della musica, manifestazione che si svolge a settembre a Pozzo della Chiana alla quale un giorno mi piacerebbe assistere. Ho avuto il tempo di affezionarmi alla voce di Valentina, unica e semplice, che scorre naturale, come il prodotto del talento e insieme di uno studio scrupoloso. Nel disco "l'amore non ha fine", uscito postumo, la stessa voce limpida ci trasporta come una fata in atmosfere di sogno, e si accompagna con differenti sfumature ai brani più carichi di pathos e inquietudine, regalando all'insieme una bellezza dolce e leggiadra che non trovo parole per descrivere. Tutto quello che posso è offrire questi petali del mio tempo e aprire uno spazio alla memoria e alla gratitudine per le emozioni positive e vere che ricevo da questa giovane artista, nel senso più pieno e vasto del termine. Grazie, grazie e ancora grazie!

sabato 3 novembre 2012

Recensione del brano "il più grande dei miei sbagli" di Valeria Vaglio

"il più grande dei miei sbagli" è la canzone centrale dell'album “stato innaturale” di Valeria Vaglio, una delle più profonde e difficili da analizzare, a mio avviso un capolavoro: quasi ogni parola evoca una pluralità di immagini e le connessioni tra i pensieri appaiono labili e molteplici, proprio come quando lasciamo parlare la parte più profonda di noi stessi senza darle troppe istruzioni, e questa libertà è confermata dal fatto che, a fronte di altre canzoni con struttura anche metrica molto regolare, questa si regge solo su assonanze e mancano quasi del tutto le rime perfette. È la storia di una passione contrastata ma vissuta con la massima intensità, che nelle strofe viene raccontata attraverso affermazioni generali o che appaiono tali (numerose le espressioni impersonali con il noi, il tu e il si), mentre negli incisi Valeria si rivolge alla persona amata e le esprime direttamente quello che prova. I primi versi sottolineano che basta un incontro a fare in modo che le reazioni del cuore non seguano la stessa direzione della mente, e la distinzione "quelli che incontriamo per caso o per destino" allarga l'insieme tanto che non si esclude nessuno degli incontri possibili nella vita, qualsiasi persona può non essere solo di passaggio. I battiti aumentano senza controllo alla vista di una stella caduta da un cielo sconosciuto, e quest'immagine fa subito pensare ad un desiderio che si avvera anche se non eravamo del tutto consapevoli di provarlo. Ma in quale delle due direzioni vanno allora i nostri atti? In alcune situazioni prevale quella del cuore, e Valeria sta parlando di una di queste; Di conseguenza vengono l'ingiustizia tra l'avere e il dare, l'impossibilità di definire i propri sussulti ed il bisogno di mantenere "all'erta i sensori di integrità morale, quand'è tutto concesso se a comandare è il cuore". Dagli incisi si evince che la fortissima passione qui descritta è inconciliabile con le regole e le categorie esterne a Valeria e dunque impossibile da realizzare in concreto, non sappiamo per quale motivo; perciò è inevitabile che essa provochi sofferenza e che la protagonista sia costretta a venire a patti con quella logica che non condivide: non può e non vuole ritirarsi ma solo "riuscire a stare un passo dietro tutta l'altra gente, sapendo che comunque sei la cosa più importante". È molto più facile vivere una passione o un amore in modo spontaneo e senza preoccuparsi delle conseguenze, ma quando ciò non è possibile tenere al centro quella persona restando indietro rispetto alla corsa del mondo ed esponendosi ai rischi che comporta il parziale distacco dalle leggi che lo governano, rinunciando così alla protezione che gliene deriverebbe, è una scelta coraggiosa e combattuta, e questo è il motivo della tensione che si coglie nell'interpretazione soprattutto degli incisi. Il primo si apre con l'immagine di un momento accanto alla persona amata che appare meravigliosa e capace di incantare come un angelo, e per associazione immediata si disegna nella mente di Valeria quella degli angeli dei quadri che le è capitato di vedere; il senso di dolore che questo le procura è reso con efficacia dalla scala discendente delle note che accompagnano le parole successive, acuito dall'opposizione con quei dipinti: lì è possibile fotografare un momento anche brevissimo, fare in modo che un sorriso o un tramonto durino tutta l'eternità, mentre nella realtà lo scorrere del tempo è implacabile e sottrae sempre troppo presto le immagini più belle e celestiali; trovarsi accanto alla persona amata diventa ogni volta una sorpresa, ed ogni volta è più straziante vederla svanire come un tramonto, interrompere l'incanto proprio quando meno lo si vorrebbe. Ci vuole coraggio anche per poter afferrare quei pochi istanti tuffi da due metri, e per dare spazio a piccoli gesti che possono far nascere e modificare emozioni più grandi, alleviare quella sofferenza pungente se solo si è disponibili ad accettarli e abbandonarsi alla loro semplicità. Anche esprimere a parole i propri sentimenti, magari rispondendo a domande casuali in qualunque contesto, può dare un senso di sollievo e Valeria dice a chiare lettere che non è segno di debolezza lasciare da parte le maschere anche se non completamente, almeno per pochi attimi: tante precauzioni e reticenze richiede accettare una storia come questa, dunque è naturale cercare quel leggero sollievo! La seconda strofa finisce con la frase "se avessi tempo e fiato non proverei timore di intrecciare male il senso e le parole", e non è difficile pensare a circostanze, specialmente accanto alla persona amata, in cui la mancanza di tempo e l'affanno che toglie il fiato impediscono di scegliere le parole giuste che corrispondono al senso, cioè a ciò che sentiamo e al significato che vogliamo dargli, insomma a ciò che vogliamo trasmettere. È questa un'espressione alla prima persona dopo tante alla terza, sembra che il coinvolgimento di Valeria aumenti pian piano in una climax ascendente come se si fosse fatta via via più coraggio nel cantare i moti del suo cuore. Nell'ultimo inciso figura per la prima volta il pronome "io" piuttosto enfatico, in accordo con il tono e il contenuto di questi versi: infatti la frase finale che occupa l'ultimo inciso e significativamente si ripete due volte con la batteria che diventa da leggerissima a più forte, è una sorta di confessione che Valeria immagina sussurrata e contiene sia la considerazione dell'impossibilità della storia alla quale il desiderio di Valeria si oppone (congiuntivo ottativo se potessi), sia la disponibilità a donarsi totalmente alla persona amata, affidarle la sua vita e il suo tempo senza condizioni e senza chiedere niente in cambio, "fosse anche l'ultimo e il più grande dei miei sbagli"; sulle ultime note la musica sfuma e rimane la sola voce di Valeria che quindi per quanto bassa sembra levarsi in un grido a un tempo disperato e deciso.

domenica 22 luglio 2012

Valeria Vaglio, recensione del brano "ore ed ore"

Valeria Vaglio, cantautrice barese di 29 anni, si pone all'attenzione del largo pubblico nel 2008 quando presenta al festival di Sanremo nella categoria nuove proposte il brano "ore ed ore". A marzo dello stesso anno esce il suo album "stato innaturale", che contiene dieci brani inediti da lei composti tra cui quello sanremese ed una cover della celebre "Oggi sono io" di Alex Britty. Colpisce di Valeria la grazia straordinaria che deriva dalla scelta accurata delle parole di una ricercatezza senza affettazione, alle quali si adattano le melodie di volta in volta fresche o gravi ma mai stucchevoli, e dall'interpretazione sobria, dalle note diritte, talvolta sussurrate e tuttavia nient'affatto asettica, anzi con una forte carica emotiva. Questo perché Valeria è protagonista delle sue canzoni che non raccontano intere storie ma momenti di esse scanditi dai pensieri che li accompagnano, e l'autrice sembra parlare a se stessa anche quando usa il tu, raccoglie e conserva attraverso la musica spaccati di vita e moti interiori. Non sente sempre il bisogno di indicarne il contesto ma tende a dare a ciascuno un valore di per sé, e spesso si riesce ad immaginare intorno ad essi una storia solo grazie a piccoli accenni o particolari linguistici: alcune canzoni come "ore ed ore", "le carezze e la ferita", "fotografia" hanno come cornice un amore omosessuale, e ne è l'unica spia l'uso al femminile degli aggettivi e dei pronomi riferiti al partner; Valeria rifugge da qualunque retorica e non afferma da nessuna parte l'uguaglianza tra amore omosessuale ed eterosessuale, perché essa emerge da sola se è vero che ad entrambi sono comuni la gioia infinita di perdersi nell'altro dimenticando tutto o il dolore del tradimento e della fine. Nessuna dichiarazione diretta o proclama, solo emozioni pure e svincolate dalle circostanze, raccontate con garbo e naturalezza. Il brano "ore ed ore" ci trasporta nell'atmosfera carica di nostalgia di una giornata invernale in cui la protagonista, nella casa che ormai non condivide più con la compagna, è sopraffatta dai ricordi di un amore che è finito senza che potesse evitarlo per colpa di un tradimento; non si dice altro sulle ragioni, lei stessa sa solo di non potervisi sottrarre e non cerca invano parole che possano spiegarle; tuttavia da più di un verso sembra che Valeria manifesti una propria ingenuità negli atteggiamenti quando la passione era ancora viva ("ma come ho fatto a non capire", "tradire è una follia, io non ne avevo idea", ma non si rimprovera per questo e in definitiva si arrende al fatto che non esiste una spiegazione che possa convincerla e non suonare come una scusa a posteriori che offende il sentimento che lei e la compagna hanno vissuto. Nelle strofe Valeria si rivolge alla compagna e le comunica i suoi pensieri, comincia con un futuro con cui dichiara la sua consapevolezza che ormai la fine è reale e senza rimedio, e non cambierà le cose il fatto che lei desideri ricominciare; l'inciso invece è fatto solo dai ricordi del loro amore che tornano spesso prepotenti tanto da non poter essere ignorati, e questo mi fa pensare che la storia si sia chiusa da poco tempo. È costante la dialettica tra passato e presente, ben espressa anche dall'uso dei tempi verbali, ed essi sono ad un tempo inseparabili ed antitetici: lei è ben sicura che il passato non potrà più rivivere e cerca di allontanarlo un poco da sé eliminando le piccole cose che lo evocano (penso ad espressioni al futuro indicativo come "non metterò mai più il maglione rosa e blu" o "non sarò più io a dirti..."), ma non per questo si è spento il suo desiderio, il suo cuore e la sua mente sono tutt'altro che rassegnati a questa realtà, le immagini di quell'amore e la passione provata non si possono rinchiudere in un armadio come i maglioni (non te lo dirò mai ma ti amo ancora sai, lascerò la porta aperta fosse anche per vent'anni o per un'eternità"). In mezzo a questi pensieri riesce soltanto a pregare che prima o poi finisca quest'inverno reso tetro dalla solitudine intollerabile, in un ambiente e tra oggetti che suscitano ricordi che non le faranno ritrovare la quiete; in quel tempo precedente di cui parla solo al passato, mentre fuori era freddo e nevicava le ore non passavano monotone ma ricche d'amore, ogni gesto e odore era parte di un rituale sacro che solo lei e la compagna conoscevano ed in quel silenzio il tempo per loro diventava eternità.